Il diritto alla felicità

Andrea Botti, avvocato, socio del Rotary eClub 2050.

Il 4 Luglio 1776, il Congresso di Philadelphia promulgò la Dichiarazione d’Indipendenza dei tredici Stati Uniti d’America dalla Corona inglese (definita, per esattezza, come “Unanime dichiarazione dei tredici Stati Uniti d’America”).

Quasi nell’incipit di questa storica Dichiarazione, i Padri Fondatori, condotti da Benjamin Franklin, affermavano solennemente:

“Noi riteniamo che sono per se stesse evidenti queste verità: che tutti gli uomini sono creati eguali; che essi sono dal Creatore dotati di certi inalienabili diritti, che tra questi diritti sono la Vita, la Libertà e il perseguimento della Felicità; che per garantire questi diritti sono istituiti tra gli uomini governi che derivano i loro giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una qualsiasi forma di governo tende a negare questi fini, il popolo ha diritto di mutarla o abolirla e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”.

Probabilmente per la prima volta nella storia, l’Atto che fondava una Nazione proclamava in termini così netti che ogni uomo ha diritto di perseguire la Felicità.

In effetti, sembra che Franklin abbia inserito l’esplicito riferimento al diritto alla Felicità, nella Dichiarazione d’Indipendenza, su suggerimento di un filosofo italiano (per l’esattezza napoletano), Gaetano Filangieri. Nel 1780, Filangieri scriveva, infatti, ne ‘La Scienza della Legislazione’: “Nel progresso concreto del sistema di leggi sta il progredire della Felicità nazionale, il cui conseguimento è il fine vero del governo, che lo consegue non genericamente ma come somma di Felicità dei singoli individui”.

Sono passati alcuni secoli da allora ma buona parte dell’umanità è ancora in cammino per raggiungere, non dico la felicità, ma quanto meno il soddisfacimento delle proprie esigenze di primaria sussistenza.

Le moderne Costituzioni sembrano essere, oggi, abbastanza caute nel proclamare il diritto a un bene così agognato, ma anche sfuggente, come l’essere felici.

L’Art. 3 della Costituzione italiana, ad esempio, più prudentemente recita: “E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.

Spesso la nostra felicità è legata al senso che ciascuno riesce a dare alla propria esistenza. Si tratta di un percorso sostanzialmente individuale e del tutto personale, che può seguire la strada della ricerca filosofica, di quella religiosa o di una valorizzazione laica del significato della vita. Sotto questi aspetti, suggerisco, per chi non l’avesse già fatto, di leggere l’interessante libro, scritto dal nostro amico e socio Beppe Calogero, “Io chi sono?”, pubblicato su Amazon (con alcune ulteriori riflessioni pubblicate anche in Tribuna Aperta).

Ovviamente, non essendo un filosofo né un religioso, non ho qui la presunzione di offrire risposte universali a queste domande così intime. La filosofia, però, entra spesso, e con naturalezza, nel diritto e in questo ambito mi sento molto più a mio agio.
Mi chiedo, dunque, se i diritti e le libertà che buona parte dell’umanità, secolo dopo secolo, ha cercato di conquistare portino davvero alla felicità.

Durante il corso universitario, il mio professore di Filosofia del Diritto, Sergio Cotta, ci faceva notare che il diritto è sempre “relazione” e che, se si vuole esaminare una questione da un punto di vista giuridico, non si può mai dimenticare di valutarla dai due o più punti di vista di tutti coloro che ne sono coinvolti.

Questo concetto, all’apparenza così semplice, ha tuttavia delle immediate conseguenze quando andiamo a discutere dei diritti e delle libertà delle persone.
Fin dove si può estendere la mia libertà rispetto alla tua? Fin dove si può riconoscere un mio diritto nel momento in cui deve coesistere con il tuo?

A ben vedere, però, il punto focale di tutta la sequenza relazione-diritto-libertà-felicità sembra essere diverso: possiamo chiedere agli altri di condividere moralmente le nostre scelte e, magari, di svolgervi un ruolo attivo?

Quando si apre il dibattito sulle “nuove libertà” e sui “nuovi diritti”, la difficoltà che spesso incontriamo sta proprio in questo: per realizzare quel “diritto” è frequentemente necessario implicare un altro soggetto.

Ancora oggi leggiamo sui giornali delle polemiche connesse all’obiezione di coscienza di molti medici e infermieri rispetto all’aborto, in quanto il feto viene considerato una vita che non è nella disponibilità della madre o del padre. Analogamente, e per le stesse ragioni, molte sono le polemiche sulla somministrazione della c.d. “pillola del giorno dopo”.

Drammatici contrasti sono sorti, ancora recentemente, per le vicende di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welbi, di cui abbiamo parlato in precedenti riunioni.
Nel primo caso, Eluana si trovava da anni in stato vegetativo permanente e ai giudici è stato demandato l’arduo compito di ricostruire la sua volontà rispetto al mantenimento del sostegno vitale (alimentazione e idratazione tramite sondino). Welbi, invece, era lucido e ha chiesto che gli venisse staccato il respiratore.

In entrambe le situazioni, per attuare la loro volontà è stato necessario ricorrere all’intervento di un altro soggetto che, materialmente, ha spento le macchine o sfilato il sondino nasogastrico. A molti, però, quest’intervento esterno non è parso accettabile perché, sebbene con il consenso dell’interessato, un terzo non potrebbe interferire con il “bene della vita”, un bene del tutto personale che non ammette intrusioni.
In quest’ottica, dunque, io ben potrei rifiutarmi di sottopormi a un intervento di amputazione della gamba in cancrena (consapevole di andare incontro a morte certa), e nessuno potrebbe costringermi a un trattamento sanitario contro la mia volontà, ma non potrei chiedere di essere aiutato a morire.

Ancora: il mio diritto ad avere giustizia per un reato subìto si estende fino alla legittimazione della pena di morte, dove una vita viene soppressa per mezzo dell’intervento attivo di altri uomini?

Il mio diritto e la libertà di avere una famiglia si può estendere fino alla legittimazione della fecondazione eterologa, procedura che coinvolge la persona che dona i gameti, quella che li riceve e, non da ultimo, il concepito (che si trova ad avere un terzo genitore c.d. biologico)?

Quello stesso diritto alla vita familiare e agli affetti privati, si estende fino al riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso e alla loro possibilità di adottare dei figli? O tale diritto, lungi dall’essere solo un fatto privato, va a influenzare l’istituto della famiglia e del matrimonio sul quale si è fondata, antropologicamente, tutta la società umana dalle sue origini fino ad oggi?

E’ evidente che, per “relazione”, queste vicende personali escono da un ambito strettamente privato, coinvolgendo chi ci circonda. E questa relazione comporta frequentemente che un evento, spesso irreversibile, che riguarda una persona, dipenda dall’azione di un altro soggetto, il quale, pur consenziente, se ne deve fare comunque carico, diventandone causa efficiente.

Tutto ciò è lecito, è etico, è morale? Ho lasciato volutamente aperte le questioni che ho citato perché non spetta a me dare qui la soluzione a quesiti che hanno carattere morale, etico, giuridico, filosofico, religioso.

Vorrei però dare una mia personale risposta a cosa intendo per felicità.
Sono, infatti, convinto che la Felicità risieda esattamente in quel principio di “relazione” di cui parlava il mio professore all’università e che la mia felicità sia per natura connessa e conseguente a quella degli altri.
Sono anche convinto che ai nostri figli, ai figli dei nostri figli, ai figli dei figli dei nostri figli, noi non lasciamo in eredità soltanto dei geni, ma, con essi, anche la nostra consapevolezza e quella di tutti i nostri padri prima di noi, in un lungo ma incessante processo di presa di coscienza, individuale e, quindi, collettiva, che l’umanità sta affrontando dall’inizio dei tempi fino a oggi e poi oltre.

Cosa diventeremo alla fine di questo “esodo”, non lo so. Probabilmente, tutta la comprensione che avremo maturato al termine del nostro percorso evolutivo (che certamente arriverà a un traguardo finale), ci condurrà a uno stato di effettiva felicità che, in questo momento, non saprei definire ma solo ipotizzare come una condizione di perfetto equilibrio, dove la carne si salderà definitivamente con lo spirito.

Non invento nulla se dico, però, che tutte le volte in cui diamo valore agli altri, lo diamo a noi stessi, e questo reciproco riconoscimento, questo incontro, questa “relazione” è ciò che ci dà veramente pienezza e che appaga ogni nostro bisogno ed esigenza.
Il riconoscere questo vincolo solidale ci completa e realizza come persone e ci consente di raggiungere quella felicità individuale che porta alla felicità collettiva di cui parlava Filangieri, indicandola come scopo delle leggi e dei governi.

Ecco perché il mio diritto alla felicità presuppone che tu per primo sia felice.

Ecco perché il valore del servizio, il “Service above self”, che il Rotary propugna e incarna da oltre un secolo, è un valore universale, che attinge direttamente all’essenza di ciò che siamo.

Per questa ragione il Rotary esiste ancora oggi, per questa ragione continuerà ad esistere.

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