Aspetti etici per una cura buona della persona

Federico Nicoli, dottorando di ricerca in “Medicina e Scienze Umane”, socio del Rotary eClub 2050.

 

Socrate cerca di chiarire il significato del “prendersi cura di sé”:
SOCRATE – Tuttavia, Alcibiade, che sia facile oppure no, per noi la questione si pone così: conoscendo noi stessi potremo sapere come dobbiamo prenderci cura di noi, mentre, se lo ignoriamo, non lo potremo proprio sapere.
ALCIBIADE – È così.
SOCRATE – Ebbene, in quale modo si potrebbe trovare questo se stesso? Così, infatti, scopriremo chi siamo, mentre finché lo ignoreremo, ci sarà impossibile.
ALCIBIADE – Dici bene.
Platone, Alcibiade Maggiore

La cura è una pratica, cioè un’azione in cui prendono forma pensieri ed emozioni orientati a soddisfare i bisogni degli altri. Si definisce quindi cura una pratica che tende a procurare il benessere dell’altro e metterlo (o ri-metterlo) nelle condizioni di provvedere da sé al proprio benessere.
Poiché tutte le persone nell’arco della loro vita hanno sperimentato il bisogno di ricevere delle cure si può affermare che tale pratica è una necessità universale della condizione umana: non solo la cura è universale; essa è anche necessaria per coltivare ogni aspetto della vita umana: sia quello corporeo, sia quelli per così dire immateriali, cioè la vita cognitiva, emotiva e spirituale, quella che – con uno sguardo olistico che evita dannose separazioni concettuali – può essere definita “vita della mente”. Per svolgere appieno la sua funzione, la cura richiede dunque a chi-ha-cura di impegnare tanto le proprie energie fisiche quanto quelle cognitive, emotive e relazionali.
I soggetti implicati nella pratica della cura sono sostanzialmente due: chi-ha-cura (caregiver o carer) e chi-riceve-cura (cared for o care receiving). I due ruoli possono essere fissi o intercambiabili, possibilità che si basano sul tipo di relazione che si instaura tra i due soggetti: nella relazione amicale è possibile uno scambio di ruoli; nella relazione educativa o terapeutica lo scambio non è possibile.
Fondamento della pratica è la relazione umana: qualora venisse a mancare, cesserebbe immediatamente anche la possibilità di curare e farsi curare.
La pratica dell’aver cura ha come prerogativa essenziale le caratteristiche di base della relazione umana, quali il linguaggio, il pensiero, le emozioni e la possibilità di condividere per comprendere i reali bisogni dell’altro.
La relazione che viene implicata nella pratica del curare è personale e diadica, e proprio in quanto tale è necessaria per promuovere l’efficienza del rapporto umano: ogni essere umano ha un profilo unico e singolare di cui occorre tener conto se si vuole creare un’autentica relazione di cura.
La cura quindi è una pratica complessa di relazione umana e non può essere altrimenti.
Prendersi cura dell’altro, inoltre, comporta un duplice atteggiamento: farsi carico delle esigenze e richieste di chi ha bisogno come se fossero propriamente nostre e assumersi la responsabilità di migliorare la vita dell’altro in quanto altro.
La cura è il farsi carico dell’altra persona, aumentando il suo ben-essere e rispettandola nella sua dignità. Ciò è teso a creare determinate condizioni, che consentono all’altro di sviluppare il proprio essere fino ad acquisire la capacità di aver cura di sé.
Si aprono quindi diverse tipologie nell’aver cura: c’è una cura che preserva la vita da quanto la minaccia, quella che la ripara quando si creano fessure di sofferenza e quella che fa fiorire offrendo all’altro esperienze in cui poter vivere una pluralità di differenti modi del divenire il proprio essere.

La pratica dell’aver cura dell’altro non solo dev’essere vissuta in un aspetto privato della relazione, ma ci dev’essere anche nella società una sensibilità su tale pratica. Movendo dalla necessaria relazione tra le persone, la pratica della cura rimanda anche al suo aspetto politico.
Le azioni di cura sono quelle in cui chi-ha-cura mostra un interesse attivo nel presentare attenzione ai bisogni, ai sentimenti e agli interessi di chi-riceve-cura considerato nella sua individualità, ed è fortemente impegnato a creare una condivisione con quelle persone che si trovano altrettanto impegnate ad assicurare un mondo in cui gli esseri umani siano nutriti d’essere e si data loro la possibilità di realizzare pienamente la loro individualità.

L’importanza della relazione tra le persone che-hanno-cura dev’essere presa in considerazione dalla società nella quale si vive, affinché si possa far conoscere alla gente l’importanza di questa pratica e si possa creare intorno agli specialisti del settore un aiuto, che potenzia l’effetto del loro agire. Nelle relazioni umane, condividere la pratica basilare che contraddistingue la richiesta di aiuto e il donare aiuto porterebbe i singoli a sensibilizzarsi e ad ‘accorgersi’ di poter dare aiuto dedicandosi alle condizioni prime dell’uomo, che sono appunto quelle del dare e ricevere cure per il benessere degli altri e di sé stessi: è proprio nell’analizzare il rapporto dialogico con l’altro che si trovano le caratteristiche peculiari dell’assistere la persona che chiede aiuto.
La cura è una pratica tesa a promuovere una vita buona nell’interesse dell’altro, cioè il ben-esistere: la cura non è un’etica, ma una pratica eticamente informata. Ed è informata dalla ricerca di ciò che è bene, ossia di ciò che aiuta a condurre una vita buona.
Per chiarire l’essenza dell’eticità nella cura della persona possiamo considerare queste tre caratteristiche:

  • farsi responsabili;

  • avere rispetto;

  • agire in modo donativo.

Farsi responsabili
Nella pratica di cura la responsabilità nasce dal sentire l’altro vulnerabile e debole. La responsabilità si basa sulla consapevolezza che altri si trovano in una condizione di dipendenza. Nell’atto stesso di richiedere di essere curati è implicito chiedere una piena assunzione di responsabilità nei propri confronti a chi è adibito a svolgere tale compito.
Farsi responsabili, però, non va inteso come assunzione assoluta del ben-essere dell’altro, bensì come un atteggiamento che si limiti a facilitare nell’altro il conseguimento della condizione di ben-essere quale conseguenza dell’atto del prendersi cura: il posizionarsi [del benessere] nella relazione tradisce un senso di onnipotenza e con esso un’interpretazione inautentica della responsabilità; si profila, invece, come responsabilità di predisporre quei contesti esperienziali che possono facilitare nell’altro l’assunzione del proprio ben-esserci.
Nella relazione di cura non possiamo fare una negoziazione paritaria, perché la richiesta di responsabilità comporta che il soggetto dipenda radicalmente da chi-ha-cura di lui.
Nel rapporto terapeutico il senso di responsabilità deve essere molto presente in chi ha-in-cura un paziente: questi si affida all’assistenza, ma la sua pretesa di trovare sicurezza è molto più grande delle cure materiali a cui deve essere sottoposto.
La responsabilità richiesta in una relazione medica o infermieristica, comunque sempre inerente a un rapporto di cura o assistenza, non riguarda solo il piano fisico o prettamente clinico, ma la persona in sé, con tutti i suoi bisogni: l’obiettivo della pratica dell’assistere è una assunzione di responsabilità tesa a ristabilire le molteplici abilità della persona in cura, per far sì che raggiunga il suo stato di ben-essere.
La relazione di cura è, quindi, sostenuta da una certezza, che è caratteristica propria dell’umano: il sapersi mancanti e necessitanti dell’altro. Chi si dedica a tale missione, tesa all’apertura all’altro, assume in sé una disposizione etica che incentra il suo interesse sia sulla propria persona (sapersi mancanti d’essere), sia sulla persona in cura (richiesta di responsabilità e di relazione), ma sempre comunque verso un vivere-bene comune.
È la richiesta di vivere-bene espressa da una persona in condizioni di necessità, che inevitabilmente porta a impegnarsi in precise attività tese sia a corrispondere alla richiesta stessa, sia a individuare le migliori modalità di risposta, poiché il rapporto ha e avrà sempre come protagonisti delle persone umane, e non automi.

Avere rispetto
La relazione di cura è dipendente dal principio dell’avere rispetto per l’altro, nel senso che se non c’è rispetto non ci può essere una buona cura. Sul rispetto è basato il corretto atteggiamento etico nei confronti di chiunque altro: a maggior ragione quando il soggetto col quale ci relazioniamo è in una condizione di difficoltà rispetto a noi stessi.
Il rispetto scaturisce dal riconoscere il valore dell’altro, come affermava Aristotele: «La mancanza di rispetto è l’effetto di un’opinione relativa a qualcosa che appare privo di valore».
Riconoscere il valore comporta salvaguardare la persona che lo cede definitivamente o per un certo periodo a chi ne assume la cura. Un carattere che denota il rispetto, in una relazione dove è difficile qualunque forma di reciprocità, come quella tra assistente sanitario e paziente, è l’accoglienza dell’altro, senza alcuna forma di possessività e di potere.
Chi-ha-cura, infatti, ha anche il dovere di tutelare il richiedente, sottraendosi al possesso, e resistendo alla tentazione dell’esercizio di un potere nei confronti dell’altra persona: io mi affido perché mi so mancante di autosufficienza, necessitante di tutto ciò che mi viene dall’essere in relazione; ma proprio per questa mia debolezza ontologica sono vulnerabile ed è questa mia vulnerabilità che mi rende necessario opporre resistenza a eventuali forme relazionali che tramutano l’accoglienza in possesso. Chi-ha-cura automaticamente dell’altro sa cogliere e rispettare i segnali che questi invia e, quindi, può capire dove l’altro fa resistenza e di conseguenza agire con rispetto.
Il rispetto, quindi, non è fissato a priori in una data relazione, ma assume diverse forme, in base alle possibili diverse richieste formulate da chi chiede aiuto, e interpretate, senza mai prevaricazione possessiva, da chi l’aiuto lo offre.
La modalità più consona per sviluppare un’etica del rispetto si struttura nell’attenzione a evitare una indebita fusione fra chi-ha-cura e chi riceve la cura: lo specialista, che ha il compito di salvaguardare e difendere il paziente, non deve assimilare la realtà che questi gli presenta dentro le sue cornici concettuali, ma agire in una forma di tutela dell’alterità. L’altro non diventa mio nel momento in cui mi chiede aiuto: io devo mantenerlo esterno a me, e ciò deve essere alla base della mia intenzione di rapportarmi a lui.
Insomma: la relazione non è mai di possesso, ma di dono.

Agire in modo donativo
L’attenzione che chi-ha-cura sviluppa nella relazione con l’altro consiste essenzialmente nel donare tempo all’altro, e donare il tempo vuol dire donare parte della propria vita: donare il tempo è donare l’essenza della vita. La madre capace di una buona relazione di cura con il suo bambino non si aspetta qualcosa per sé; il suo desiderio è favorire il pieno fiorire dell’altro. Ciò che sente come bene, ossia la sua esperienza del ben-essere, è il sentire il ben-essere dell’altro. La primarietà del ben-essere dell’altro è tale da rendere necessario il donare il proprio tempo, la propria esperienza all’altro.
Nella pratica di cura l’agire donativo è una norma etica fondamentale.
Oggi è difficile donare l’essenziale, in quanto con la vittoria dell’individualismo, che fa coincidere il bene non con la buona vita o con il bene dell’altro ma con l’affermazione di sé, l’agire donativo è incentrato su una prospettiva economicistica, su un ritorno di avere.
Punto d’origine dell’atteggiamento donativo nei confronti dell’altro è il riconoscersi: la relazione tra simili, anche su piani diversi, s’instaura perché il dono della relazione è la base di un riconoscimento reciproco, soprattutto nel momento del bisogno.
Donare le proprie competenze al prossimo, in modo specifico nelle pratiche di cura, è il substrato sul quale si sviluppa l’etica della responsabilità.
Sul donare il tempo quale più alta forma di cura, Seneca suggeriva che «nessuno, che si sia impadronito del tempo [di un altro], se ne consideri debitore, giacché intanto il tempo è l’unica cosa che neppure uno riconoscentissimo può restituire».
L’agire come dono è un sapere dove sta l’essenziale e il valore vitale sia di se stessi che della persona in cura. L’atto donativo presuppone una visione della vita che fa da sfondo alla modalità dell’agire stesso, e all’organizzazione del tempo che è dedicato a tale pratica: Quando si sa di essere in presenza di ciò che conta nell’esistenza, allora certe scelte difficili ispirate all’etica del dono non hanno il significato dell’impoverimento, se mai dell’apertura all’esserci con senso. È quando si pratica la cura all’interno di questa visione che il proprio agire si sottrae a ogni etichetta che lo definirebbe gratuito o addirittura sacrificale, per collocarsi, invece, nella logica dell’agire nell’essenziale.
Dal punto di vista della nostra cultura l’atteggiamento donativo ha difficoltà a essere riconosciuto, in quanto il valore delle persone dedite a questa pratica non è garantito dal necessario sostegno da parte della società. Se l’imperante ottica del mercato e lo scambio economico non riconoscono che la propensione umana a fare del bene e a difendere questo valore è almeno equivalente come importanza alla circolazione dei beni, dei prodotti e al valore di scambio, si rischia il venir meno del rapporto tra la fiducia tra persone.

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