L’Emmanuele, “Dio con noi”, ci indica la strada della vita

Don Achille Bonazzi, socio onorario del R.C. Casalmaggiore Viadana Sabbioneta (Distretto 2050).

 

Prendo spunto dal prologo del Vangelo di Giovanni, una delle pagine teologicamente più alte di tutta la Bibbia, valorizzata a Natale nella Messa del giorno, per condividere con voi l’affermazione che il Natale rappresenta l’evento storico che conferisce valore, dignità e significato all’esistenza di ogni persona. Al versetto 14 del 1° capitolo si legge “Il Verbo si fece carne”: il Natale è la celebrazione – memoriale della storia di Dio che entra prepotentemente nella storia degli uomini. Proprio per questo la speranza prende il posto della nostalgia; il significato di quella nascita cancella la tristezza ed esaudisce il grido dei poveri di ogni tempo e di ogni luogo che attendono la salvezza e la gioia. Si ha anche certezza che si tratta di una scelta concreta: “si fece carne”, quest’ultimo termine in greco recita “sarx”: è la carne biologica, quella del nostro corpo, delle nostre mani, del nostro cuore, non qualcosa di nebuloso o di campato sulle nubi. E’ nel Cristo, incarnato nelle nostre vicende, consiste la salvezza della storia, perché la salvezza non scaturisce dalla storia degli uomini, ma dal Figlio di Dio fatto Uomo. E’ l’oggi dell’uomo che viene redento dall’oggi di Cristo: non si realizza solo la storia della salvezza, ma è salvezza della storia , la redenzione del tempo storico operata dal Signore che, entrato nella storia, ha rivelato l’iniziativa di Dio Padre, dello Spirito, vale a dire di mostrare il progetto dell’amore infinito di Dio per l’umanità di sempre.
“E venne ad abitare in mezzo a noi”: il Natale non va pensato e vissuto in termini spiritualizzanti, bensì di trasformazione e di comunicazione: il Verbo, la Parola fatta carne, è il compimento e la pienezza degli interventi di Dio a favore dell’umanità. Solo il Figlio rivela il Padre , perché solo Lui Lo conosce (Mt. 11,27): il Figlio eterno che nel tempo si è fatto uomo, unisce il mondo di Dio e il mondo degli uomini; è sacramento di Dio e sacramento del mondo.
“Venne tra i suoi, ma i suoi non lo hanno accolto” (Gv.1,11): la parola del Vangelo coinvolge anche noi che a volte non vogliamo accogliere Gesù come un Bambino in mezzo a noi. E’ facile ridurre al silenzio un bambino; eppure è necessario mettersi in viaggio come i pastori verso la greppia di Betlemme e non rimanere nei palazzi come Erode; significa far nascere Cristo nei nostri cuori e non rimanere impassibili dinanzi all’intervento di Dio nella nostra storia.
“E noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità” (Gv. 1, 14): il Verbo incarnato realizza l’inizio di un nuovo itinerario di fede e di speranza per il mondo e chiede a noi di saperlo prolungare nel tempo; con la Grazia di Cristo e la coscienza che il Signore è presente nella nostra carne, si è invitati a rendere presente nella storia la Sua azione. Far nascere il Verbo in noi comporta il manifestare nel nostro agire un comportamento nuovo, una nuova prassi di vita che sia segno glorioso dell’Incarnazione di Dio nel tempo.
Infine ancora un’attenzione: si legge nella Lettera agli Ebrei “Molte volte e in diversi modi, nei tempi antichi, aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti..”: a quanto pare non aveva ottenuto molto, o, perlomeno, non ciò che aveva sperato, perché gli uomini hanno continuato a stare lontano da Dio. Parafrasando in modo irriverente una canzone di Mina “parole…parole…parole…”. Perché di parole gettate al vento ne ascoltiamo anche oggi tutti i giorni, da parte di “profetucoli” da strapazzo: nei palazzi del potere, nelle tribune politiche, nelle piazze gremite per i comizi, nei dibattiti televisivi, nelle aule del sapere, purtroppo anche dagli amboni delle chiese. Parole vuote che dicono poco o nulla e che quindi non portano a nulla. Con la Parola del Dio incarnato come la mettiamo? La sua Parola è come la pioggia e la neve; non può tornare a Lui senza aver ottenuto ciò per cui l’ha mandata. Eppure, così almeno pare, il mondo va da tutt’altra parte e si allontana sempre più da Dio. “Ultimamente.. nei giorni nostri” ci parla direttamente Lui. E se vogliamo vivere il Natale si è invitati a vivere un altro tipo di esigenza. Quella di una fede incarnata, terrena, “contaminata” di umano, non asettica, non devozionale, non rinchiusa nell’Empireo. Da Betlemme in poi gioire di Dio significa gioire dell’uomo, soffrire per Dio vuol dire soffrire per l’uomo e con l’uomo. Da Betlemme in poi non si può annunciare una fede annunciata sugli altari dorati e incensati; si annuncia una fede di strada, polverosa, condivisa e incontrata sulle strade degli uomini. Da Betlemme in poi non si può vivere una fede fatta di devozionismi e pietismi, ma si vive una fede impregnata dei drammi e delle gioie dell’umanità. Da Betlemme in poi non c’è più una fede da sagrestia, ma una fede rivestita di sudore, scalza, affaticata e per questo gloriosa.
Da Betlemme in poi , e oggi più che mai, abbiamo l’obbligo , il compito, il dovere di annunciare una Parola fatta carne tra le bottiglie vuote e scolate della dispensa di un padre di famiglia o di un giovane alcoolizzato o drogato; una Parola fatta carne tra le lamiere contorte di una baracca distrutta dal tifone o tra mura spazzate via da un’alluvione, una Parola fatta carne tra i 4 milioni di tonnellate di cibo buttati nella spazzatura ogni anno solo in Italia, una Parola fatta carne tra gli scafi delle carrette del mare adagiate nel canale di Sicilia; una Parola fatta carne tra i lager di accoglienza e di identificazione dei profughi; una Parola fatta carne tra le mura domestiche dove ogni anno vengono uccise “per amore”, quasi 200 donne solo in Italia; una Parola fatta carne tra i capannoni deserti di fabbriche chiuse per la crisi.
Nel Bambino nato a Betlemme ogni persona, anche quest’anno, può rinascere come nuova creatura: accogliendo il Signore, si diventa “nuovi”

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