Veri malati e false malattie

Pietro Cavalli, dirigente responsabile dell’U.O. di citogenetica dell’ospedale di Cremona, socio R.C. Cremona (Distretto 2050).

 

E’ possibile per un medico parlare di persone sane? E ancora: è possibile parlare di malattie evitando di parlare di persone malate? Si può insomma discorrere di malattie senza trattare di malati?
In realtà per parlare di qualsiasi argomento, bisogna per forza che esso sia definito con la massima precisione possibile.
Se invece io chiedessi in giro cos’è una malattia, certamente avrei tante risposte diverse, quante sono le persone interpellate. Ciò dipende dal fatto che ciascuno di noi ha della malattia un’idea, un concetto che è legato alla propria esperienza, alla propria vita, alle proprie immaginazioni. Una malattia può rappresentare infatti dolore e sofferenza (malato e suoi familiari), speranza (eredi), opportunità di business (industria farmaceutica, pompe funebri), soddisfazione (medico e brillante diagnosi) e così via..
Allora, se proprio vogliamo definire il termine “malattia”, allora dovremmo ricorrere ad una definizione trasversale, che vada bene per il medico, per il paziente, per il malato, per l’oggi e per ieri, per Ippocrate e per Augusto Murri, per la medicina ufficiale e per quelle che impropriamente vengono definite medicine olistiche.
Parlo quindi di malattia come della perdita di uno stato di equilibrio tra l’individuo e l’ambiente. Se il nostro organismo riesce a raggiungere e conservare questa condizione con tutto ciò che lo circonda, allora siamo in assenza di malattia: quando invece questo equilibrio viene meno, allora si manifesta la malattia.
Si tratta di una definizione talmente generica che non può non trovare d’accordo tutti, da Galeno ad Harvey, da Wirchow a Poiré a Osler, persino i seguaci di Hahnemann (omeopati).
Il difficile è invece definire i due termini dell’equilibrio: se per l’ambiente ce la caviamo facilmente (ambiente è tutto ciò che esiste al di fuori del nostro organismo) per definire l’individuo è indispensabile scomodare la genetica. Ciò che costruisce e fa funzionare il nostro organismo individuale è, per l’appunto, il messaggio contenuto nei nostri geni, nel nostro DNA.
In estrema sintesi (e citando Dawkins) potremmo sostenere che è il nostro DNA che deve essere in condizioni di armonia (equilibrio) con l’ambiente.
Tutte le malattie si rifanno a questo modello. Anche le malattie infettive, quelle per le quali, come tutti sappiamo, è indispensabile la presenza di batteri e virus, dipendono anche dalla nostra costituzione genetica. Il batterio della tubercolosi, il virus dell’AIDS costituiscono la condizione necessaria ma non sufficiente per il manifestarsi della malattia. Infatti alcuni individui, che possiedono particolari mutazioni genetiche , possono risultare molto resistenti, quasi immuni all’ infezione.
Certe persone, nonostante comportamenti sessuali a rischio, non si ammalano di AIDS poiché mutazioni in geni CCR5 conferiscono loro elevata resistenza all’infezione.
E così via. Ma dal momento che la biologia, come la realtà, non è completamente e definitivamente classificabile in schemi rigidi, esistono malattie che sono solo genetiche (ereditabili e trasmissibili) e malattie che sono solo ambientali (sbattere a 100 Km all’ora conto un muro procura danni indipendentemente dalla costituzione genetica individuale).
Tra questi due estremi ci sono tutte le altre malattie: e quando dico tutte, intendo dire proprio tutte.
Ma, ritornando alla domanda iniziale di questa relazione, vediamo se è possibile parlare di malattie e non di malati.
Nel 1926 Jules Romains, pubblicando la commedia “il dottor Knock, o il trionfo della medicina”, descrive il paesino di St. Maurice ed i suoi abitanti, la loro vita tranquilla, un po’ noiosa ma soprattutto sana, senza preoccupazioni, senza malati e senza malattie. L’arrivo improvviso del nuovo e giovane medico, il dottor Knock, è dirompente e provoca un tale subbuglio che nel giro di pochi mesi, a causa del numero sempre crescente di malati, l’albergo locale viene trasformato in ospedale ed il farmacista, che in precedenza vivacchiava senza infamia e senza lode, diventa un ricco imprenditore del farmaco.
Il segreto di questa repentina trasformazione sta nel fatto che il dottor Knock, utilizzando accorte strategie promozionali (visite gratuite, pubblicità), riesce a convincere gli abitanti di St. Maurice che la loro salute nasconde in realtà una pericolosa insidia:la malattia.
Dato il continuum tra benessere e malattia, non è stato difficile per il brillante medico convincere di essere ammalato anche chi sente in forma. In sintesi la tesi del dottor Knock è la seguente: non esistono le persone sane e chi sta bene è semplicemente un individuo che ancora non sa di essere malato.
Cinquant’anni dopo Henry Gasden, allora a capo della Merck, una delle più importanti multinazionali del farmaco, dichiarava pubblicamente il suo sogno di produrre farmaci per le persone in salute, in modo da avere a disposizione un mercato dalle dimensioni illimitate, composta sia da persone sane che da malati.
Questione ripresa in tempi più recenti dal British Medical Journal, per il quale un ottimo metodo per diventare ricchi è quello di trasformare le persone sane in individui malati.
Anche Marcia Angell, già direttrice del New England Journal of Medicine, sottolineando che le multinazionali del farmaco spendono nel marketing più di un terzo del loro bilancio complessivo, più del doppio rispetto a quanto spendono per ricerca e sviluppo, esprime disagio sul fatto che i loro uffici siano intensamente occupati a trovare nomi nuovi per condizioni conosciute da sempre, oppure impegnati a inventare nuove malattie, attribuendo un nome difficile a condizioni non necessariamente patologiche. In parole più semplici, mentre un tempo si inventavano i farmaci per trattare le malattie, oggi si inventano le malattie per vendere i farmaci.
In questi anni fiumi d’inchiostro sono stati versati a proposito di “disease mongering”, il modo con cui i problemi quotidiani vengono trasformati in disturbi di pertinenza medica, con stime di prevalenza talmente elevate da garantire il successo commerciale a tutti gli operatori coinvolti nell’operazione.
A tutto questo si deve aggiungere la diffusione del termine“promozione della salute” spesso utilizzato al posto di “promozione della medicina” oppure di “promozione dei farmaci”.
La tecnica è quella di utilizzare dati statistici, per cui il rischio, cioè la probabilità che un evento possa verificarsi, viene impropriamente utilizzato per descrivere una sorta di “anticamera della malattia”. Diventa quindi assai facile il passaggio dalla categoria dei sani a quella di chi, ancorchè sanissimo, potrebbe però ammalarsi in futuro, una condizione inquadrabile in una nuova categoria di pazienti: i “malati di rischio”.
In questo approccio svolgono un ruolo importante gli eventi denominati “Open Day” di patologia, spesso difficili da decifrare: interventi di medicina preventiva, sanità pubblica, informazione oppure pubblicità, autopromozione, medicalizzazione di massa?
Di questi tempi una parte degli operatori sanitari si dedica con successo ed entusiasmo a questi eventi, con contaminazioni di marketing e di fund raising: il trionfo dei calendari, delle T-shirt, delle agende, delle spillette, delle marce non competitive associate a banchetti e grigliate. Recarsi con striscioni e bandiere presso i Centri Commerciali a reclutare nuovi potenziali pazienti sembra diventato il must del momento.
È legittimo allora domandarsi se tutto questo migliori davvero il “prodotto salute”, sia a livello individuale che di popolazione.
Sarebbe interessante, seppur difficile, riuscire ad applicare i criteri della medicina basata sulle prove di efficacia per valutare gli effetti determinati da tutti questi comportamenti di medicalizzazione spinta e di marketing.
In realtà questo interrogativo ne maschera un altro, forse più drammatico perché coinvolge anche chi, specie tra i giovani, ha scelto la professione di medico. Il grave rischio che già si intravede dietro lo sfavillante mondo degli annunci a sensazione è quello di avere costruito un modello, quasi un paradigma, per cui una medicina più sommessa, pur basata su serietà, competenze, abilità, conoscenza, professionalità, empatia e corretto rapporto medico-paziente, rischia di essere oscurata e marginalizzata.
Ma forse è tutto molto più semplice: il concetto del “Primum, non nocere” e cioè, per chi non ha fatto il liceo classico, la prima cosa di cui deve preoccuparsi un medico è quella di non procurare danni, è stato oscurato dalla ricerca del profitto e dalla trasformazione della medicina in attività burocratica/amministrativa. E’ anche per questo che oggi il paziente si chiama utente o addirittura cliente, così come il cliente del calzolaio o del supermercato.

I commenti sono chiusi.