La professione di giornalista – Sempre meglio che lavorare?

Alessandra Nucci, giornalista, socia dell’eClub 2050

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“Il mestiere del giornalista è difficile, carico di responsabilità, con orari lunghi, anche notturni e festivi; ma… è sempre meglio che lavorare.” La celebre battuta di Luigi Barzini racconta il fascino del mestiere, che in tanti sarebbero disposti a fare anche gratis. Anzi, gratis, nella speranza di essere assunti, è sempre stato fatto, anche per anni. Al Resto del Carlino il record credo lo detenga una firma nota, oggi in pensione, che fu abusivo per 15 anni. Ricordo di un altro redattore “abusivo” che quando riuscì a farsi assumere aveva già i figli al liceo. Arrivare a essere pagati per una cosa che si farebbe anche gratis per certi versi è il massimo della fortuna nella vita.

Fare la giornalista è la mia attività di preferenza dal 1990, quando ho cominciato a scrivere di scuola (allora il mio ambito di lavoro principale) sul quotidiano locale e testate varie.  Dopo due anni di lavoro retribuito ho potuto iscrivermi all’Ordine dei giornalisti, elenco pubblicisti. Ma che conosco l’ambiente è dai primi anni Settanta, quando mio marito entrò come redattore al Resto del Carlino.

Negli anni Settanta i quotidiani erano “sporchi”, fatti con il piombo che ti anneriva le dita dopo averli sfogliati. In Italia chiudevano tardissimo, all’una di mattino, con la possibilità di correggere e integrare anche fino alle tre, per cui bisognava che i giovani facessero “la notte”, cioè arrivassero al lavoro intorno alle 17,30, per restare di guardia fino alle ore piccole. Ricordo un amico che mi riferiva con sarcasmo di aver telefonato tutta la mattina alla redazione del Resto del Carlino e di non aver ricevuto risposta, intendendo con questo dire che erano dei privilegiati che lavoravano poco! Ma nei quotidiani, che riportano ogni giorno le notizie più recenti, il lavoro non può iniziare prima del pomeriggio, gli avvenimenti devono avere il tempo di succedere!  “Prova a chiamare dalle 15 alle 23 e risponderanno tutti – gli spiegai – ma di gran fretta perché le notizie arrivano quando arrivano, e vanno subito scritte e messe in pagina”

Mio marito, da giovane ultimo arrivato, nei primi anni doveva fare le notti, tornava a casa dopo le tre del mattino.  Una notte però non tornò! Le tre, le quattro, le cinque, le sei… Al giornale non rispondeva e all’epoca non c’erano i cellulari. Arrivò alle 7 con la notizia del rapimento del giudice Sossi, il primo grosso rapimento delle Br, un evento sconvolgente che aveva richiesto la presenza e l’attenzione di tutti gli addetti del momento. Avvenimenti come questo davano l’impressione di essere in prima linea; non solo: fare il giornalista sedentario a quell’epoca era come essere inviato di guerra. Erano i cosiddetti “anni di piombo” e a partire da Indro Montanelli,  ci furono giornalisti gambizzati o addirittura ammazzati (Walter Tobagi, Carlo Casalegno) per colpa di quello che scrivevano.

Allora non esisteva quella comunicazione “in tempo reale”, che tutti oggi diamo per scontata. A pensare a quando il tempo reale passava per il nastro punzecchiato della telescrivente, perché non c’era neppure il fax, sembra di andare indietro di secoli. Ancora negli anni Novanta, quando ho cominciato io a mandare i pezzi in redazione, le notizie si dettavano al telefono e i “dimafonisti” riascoltavano e trascrivevano la registrazione (prima c’erano gli stenografi), da mandare al redattore che la doveva impaginare, il quale poi a sua volta la passava in tipografia. Le pagine dalle redazioni provinciali arrivavano in treno, in un oggetto chiamato “fuorisacco” che il giornale mandava a prendere in stazione, e con grande  celerità trasferiva in tipografia per essere avviato alle rotative.  Se si perdeva il fuorisacco diventava un’emergenza totale riuscire a riempire delle pagine che altrimenti sarebbero arrivate in edicola…. bianche!

Questa urgenza da “prima linea” è quella che faceva del giornalista il mestiere romanticizzato dei film: prima che internet smitizzasse i giornali rendendo la comunicazione più “democratica”, il giornalista per la gente era il reporter, con la matita dietro l’orecchio, o l’investigatore, richiamando personaggi interpretati da Jack Lemmon, Robert Redford, Orson Welles, o l’inviato di guerra come Hemingway o Orwell …  In realtà, fuori a caccia di notizie ci vanno quelli delle “agenzie” (Ansa, Reuters, Associated Press e via citando ) e chi lavora con i tempi più tranquilli delle riviste.  Il contratto da inviato à la Hemingway è sempre stato approdo di pochi. Gli inviati nei quotidiani oggi sono per lo più ancorati alla scrivania, per una questione di costi, e ottengono di andare in missione solo temporaneamente e per specifici avvenimenti. Oggi l’editorialista che fa il solo tragitto casa-redazione non rischia più la vita, ma piuttosto guai giudiziari, cause, censure dall’Ordine.

Nel mondo in generale, il mestiere è uno dei più rischiosi. Si rischia la vita e si rischia anche la galera. Secondo il World Press Freedom Index stilato dalla ONG Reporters Without Borders la libertà  di stampa è arretrata dovunque nel mondo,  e le cause sono le azioni degli estremisti islamici, le guerre, le violenze compiute durante le manifestazioni, la crisi economica. I giornalisti uccisi l’anno scorso per motivi legati al loro lavoro sono stati 64, fra cui gli 8  redattori di Charlie Hebdo.

In Italia dal 1925 esiste l’Albo dei Giornalisti, e con la legge 69 del 3.2.1963 è stato creato l’Ordine dei Giornalisti. L’Albo professionale si divide in due elenchi, uno per i giornalisti professionisti, ovvero coloro che fanno i giornalisti “in modo esclusivo e continuativo”, l’altro per i giornalisti pubblicisti, che oltre all’attività giornalistica possono fare anche altro.  La cosa strana che distingue l’Ordine dei Giornalisti  da tutti gli altri Ordini professionali è che per iscriversi uno deve aver già svolto la professione in base a un contratto e a una retribuzione, e non viceversa.  Se uno non è assunto da una testata con contratto da praticante, in base al quale deve aver lavorato per due anni, non può dare l’esame per l’esercizio della professione. Analogamente, non può iscriversi all’albo dei giornalisti pubblicisti chi non può comprovare, ricevute alla mano, di essere stato retribuito per articoli pubblicati, da una testata registrata in tribunale,  continuativamente nel corso di due anni.

Quindi chi è giornalista lo decidono gli editori e i proprietari dei media.

Ma questo, che bene o male costituisce un collo di bottiglia che altri Paesi non hanno, ha cominciato a venire meno nei fatti grazie a Internet, che mette tutti coloro che dispongono di un “device”, e una connessione internet, in condizione di pubblicare articoli e fare opinione. Logicamente i giornali tradizionali sono entrati in crisi, con tutte le conseguenze negative del caso, che ricadono non solo sull’occupazione ma anche sulla libertà di stampa di cui sopra. Il segno più eloquente è di questi giorni: la fusione fra due delle tre maggiori testate nazionali, La Stampa e La Repubblica, assieme al Secolo XIX. Cosa significhi accorpare le fonti da cui ci arrivano le notizie non devo certo spiegarvelo io. Anche perché alle condizioni attuali, con le vendite in picchiata stante la concorrenza dell’informazione gratuita online, e con la pubblicità che manca a causa della crisi, dobbiamo aspettarcene altre di fusioni.

Per fortuna, come già detto, esiste Internet. Ma nel regno della comunicazione elettronica i regimi autoritari hanno facilità di chiudere e limitare, la Cina in questo la fa da maestra. E purtroppo anche nel mondo libero è da tempo che si palesano tentativi di controllo proposti per via legislativa.

Cosa dire a chi volesse intraprendere oggi questo mestiere? Innanzitutto che non esiste minimo sindacale, sparito come per tutte le professioni con il decreto-liberalizzazioni di Bersani del 2006. Così i grandi giornali si permettono di pagare anche solo 3 euro a pezzo. Lordi. La “paga” vera infatti consiste nella possibilità di farsi un nome. Meno importanti sono i giornali, più devono pagare chi gli scrive i pezzi.

La battuta di Barzini quindi non basta più. Perciò per concludere questa presentazione mi sono rivolta a un brillante amico giornalista di 35 anni, che ha perso il lavoro quando ha chiuso il suo giornale. Bella presenza, due lauree e un master, scrive come free-lance anche su pubblicazioni estere, ha lavorato in tv, è autore di una dozzina di libri ed è apprezzato ospite e commentatore in tante manifestazioni. Uomo dunque dalle mille risorse, mi sono rivolta a lui per sapere quale consiglio darebbe a questo punto della sua vita a un giovane che volesse fare il giornalista. Risposta: “di trovarsi prima un mestiere per vivere Poi può anche fare il giornalista, scrivere…. Io ad esempio sto facendo il corso per diventare bagnino professionale, sono già a buon punto …. “.

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