Angelo Di Summa, ex dirigente Regione Puglia, P.P. e socio del R.C. Fasano (Distretto 2120).
C’è un modo diverso oggi da concepire e di parlare di pace. Quello che una volta era visto soprattutto come un problema riguardante eminentemente le relazioni fra gli Stati e la composizione dei loro interessi, spesso configgenti e per lo più territoriali ed economici, si è allargato ad una visione, che potremmo definire olistica, delle relazioni globali fra i popoli della terra e addirittura delle relazioni interne ai popoli fino alle relazioni tra le persone e l’ambiente in cui esse vivono.
Se la prima visione rendeva protagonisti gli statisti e i sistemi politico-militari, la seconda coinvolge ogni persona, singola o associata. Già Papa Giovanni XXIII, nella “Pacem in terris”, affidava agli uomini di buona volontà il compito “di ricomporre i rapporti della convivenza nella verità, nella giustizia, nell’amore, nella libertà: i rapporti della convivenza tra i singoli esseri umani; fra i cittadini e le rispettive comunità politiche; fra le stesse comunità politiche; fra individui, famiglie, corpi intermedi e comunità politiche da una parte e dall’altra la comunità mondiale. Compito nobilissimo quale è quello di attuare la vera pace nell’ordine stabilito da Dio”. Anche a prescindere di una visione religiosa, che collega l’ordine universale al disegno divino della creazione e alla responsabilità dell’uomo come custode della creazione, la relazione tra la pace, la giustizia e la solidarietà appare ormai una concezione diventata fortunatamente generale. Del resto è a questa visione che si ispira il Rotary International nell’invitare i rotariani di tutto il mondo a dedicare il mese di febbraio alla riflessione e all’impegno operativo sul tema “Intesa, comprensione e pace mondiale”. Ma qui occorre stare attenti. È vero: in linea con tutto un processo culturale che supera il concetto di “delega” in favore di quello di cittadinanza attiva e diffusa, lo spostamento dell’ottica implica certamente un coinvolgimento esigente e responsabile di ogni singolo individuo rispetto alla costruzione di una pace diventata “bene comune globale”, ma la responsabilità di ciascuno non è da vedere come una forma individualizzante dell’impegno. A mio avviso, rimane fondamentale scoprire la dimensione sociale dello stesso. Pur senza contraddirlo, occorre andare oltre il celebre aforisma di Baruch Spinoza secondo cui “la pace non è assenza di guerra, ma una virtù, uno stato d’animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia e alla giustizia”. La virtù e la disposizione dell’animo sono preziose ma non bastano: devono tradursi in azione.
Oltretutto, sarebbe ingenuo oggi prescindere dalla considerazione dei processi di globalizzazione e dimenticare quanto la pace, nel senso sopra specificato, sia messa in difficoltà proprio, per esempio, dai fenomeni di globalizzazione dell’economia e della produzione, cause non secondari delle povertà, degli squilibri sociali, dai meccanismi di distruzione dell’ambiente.
Come sostiene il famoso teologo Hans Küng, alla globalizzazione dei processi che portano all’agonia del mondo occorre contrapporre una nuova globalizzazione dell’etica. In tal senso il 4 settembre 1993 a Chicago, su sua iniziativa, il “Parlamento delle religioni mondiali” ha sottoscritto la “Dichiarazione per un’etica mondiale”, un documento prezioso quanto poco conosciuto e fondato sulla certezza che esistano principi etici fondamentali comuni a tutte le culture e a tutte le religioni: “Noi tutti dipendiamo gli uni dagli altri. Ognuno di noi dipende dal benessere della totalità. Perciò dobbiamo avere rispetto per la comunità degli esseri viventi, degli uomini, degli animali e delle piante, e avere cura della salvaguardia della terra, dell’aria, dell’acqua e del suolo. Noi portiamo la responsabilità individuale di tutto ciò che facciamo. Tutte le nostre decisioni, azioni e omissioni hanno delle “conseguenze”.
E ancora: “Noi dobbiamo comportarci con gli altri come vogliamo che gli altri si comportino con noi. Noi ci impegniamo a rispettare la vita e la dignità, l’individualità e la diversità, così che ogni persona venga trattata in maniera umana, senza eccezioni”.
Se quindi l’obiettivo è quello, grande e ambizioso, della realizzazione di una nuova etica su scala planetaria, a maggior ragione la pratica della comprensione, come la ricerca dell’intesa, vanno sempre realizzate sì nell’ambito personale e nei “dintorni” familiari e sociali, ma non si deve prescindere dalla necessità di un impegno capace di guardare alla comunità o, meglio, alle più vaste comunità in cui si è inseriti. E se l’impegno attivo per la comunità locale e, finanche per quella nazionale, può agevolmente realizzarsi con gli strumenti associativi propri dei livelli “politici” considerati, certo l’impegno per una “pacificazione” planetaria presuppone il ricorso a soggetti e strumenti capaci di avere il respiro del pianeta stesso e dalla forte caratterizzazione etica e valoriale.
In questa prospettiva i rotariani possono per davvero considerarsi dei privilegiati, avendo a disposizione nel Rotary International una grande realtà sovranazionale e un eccezionale strumento per “agire insieme” al di là di ogni frontiera statuale, ma anche culturale e finanche psicologica.
Non a caso alla base della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” c’è un documento rotariano. Senza dimenticare che proprio il Rotary è stato promotore di innumerevoli documenti e iniziative per la diffusione di una cultura per la pace e ha collaborato con numerose Agenzie o Organizzazioni collegate all’ONU.
In altre parole, abbiamo alle nostre spalle un grande patrimonio che ci incoraggia e ci legittima come interlocutori e credibili portatori di speranza. Non ci resta che andare avanti, ricordando sempre la lezione di Eleanor Roosevelt: “Non basta parlare di pace. Uno ci deve credere. E non basta crederci. Uno ci deve lavorare”.
Quest’ultimo appello al dovere del lavoro, pur venendo da lontano, ci indica la nuova frontiera per i “pacifici” ed è la frontiera della responsabilità. La visione etica del Rotary, quella che ci impone la prova delle 4 domande, per intenderci, ci consente di dire, ancora una volta, all’ONU che è tempo che alla dichiarazione universale dei diritti faccia seguito una “dichiarazione universale dei doveri dell’uomo”.
La pace si costruisce sul riconoscimento dei diritti, ma sempre più è tempo di ricordare che la sua realizzazione è fondata sull’adempimento dei doveri: doveri verso gli altri uomini, verso il riconoscimento delle differenze, verso la tutela della vita, verso l’uso responsabile delle risorse naturali, delle proprietà e delle ricchezze. I fenomeni degenerativi che portano la nostra società verso l’esaltazione dell’individualismo e della ricerca del piacere impongono più che mai il passaggio da una “cultura dei diritti” a una “cultura della responsabilità”.