Le periferie del mondo: modelli di rivincita sociale ed economica

Paolo Celli, imprenditore, Socio dell’eClub 2050

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La periferia è una fabbrica di idee, è la città del futuro (Renzo Piano)

Confesso che le periferie mi affascinano.

Sono per definizione luoghi di passaggio, di transizione, e quindi segni e teatro della trasformazione sociale e culturale dei territori, e metafora dei percorsi di cambiamento che sono diventati ormai una costante inevitabile nella nostra vita quotidiana.

Pensiamo per un attimo a quanto rapidamente diventino obsolete (“periferiche”) certe nostre conoscenze, di fronte all’avanzare della tecnologia che crea continuamente nuovi poli di interesse (“centri”).

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Perché si tratta di un tema rilevante per un club di servizio come il Rotary?

Perché dove ci sono i problemi (e nelle periferie ce ne sono tanti) ci sono anche occasioni di riscatto, idee da valorizzare, energie positive da aiutare affinché possano emergere. Alcuni trend del futuro prossimo stanno sicuramente nascendo in questo crogiuolo inquieto che sono le periferie.

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Da dove iniziamo?

Le periferie ovviamente sono sempre esistite. Diciamo che da che esiste un centro della vita sociale, politica, culturale è sempre esistito un luogo tendenzialmente meno esposto all’influenza del centro, fisicamente distaccato, a volte escluso.

Le periferie fisiche sono un conto, bisognerebbe parlare anche di periferie culturali, ma inizieremmo già ad allontanarci dal tema.

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Oggi il tema emerge spesso perché l’urbanizzazione sta raggiungendo livelli inimmaginabili ed é un trend che ci accompagnerà sicuramente per i prossimi decenni senza inversioni di tendenza.

Alla crescita delle città corrisponde la crescita abnorme delle periferie, visto che la sola crescita verticale non può sostituire la crescita in orizzontale.

La città più popolosa del mondo è Shanghai, con oltre 23,7 milioni di abitanti. La seconda è Karachi in Pakistan con 23,5 e la terza è Pechino con 20 milioni di abitanti. Nessuna città italiana compare (fortunatamente) tra le prime venti città più popolose del mondo.

Devono essere inimmaginabili i problemi posti da comunità la cui popolazione è poco meno della metà della popolazione dell’intera Italia…

Una città è una grande comunità dove le persone si sentono sole tutte insieme (Herbert V. Prochnow)

La città, fenomenale groviglio

Vorrei trattare questo interessante tema con l’obiettivo di fornire spunti e chiavi di lettura, senza tentare di farne una trattazione esaustiva, cosa che richiederebbe molto spazio e sicuramente maggiori competenze in materia.

Evidenzierò senza pretesa di completezza alcune esperienze negative e poi i germi della trasformazione positiva che, proprio partendo dalla periferia, può portare lontano.

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Analizzando il tema mi sono reso conto che in realtà, anche senza andare ad indagare in luoghi più o meno remoti, la nostra realtà italiana offre interessanti spunti di riflessione.

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Periferia e speculazione edilizia = degrado

Gli anni cinquanta e sessanta sono stati caratterizzati in Italia dal grande successo dei cosiddetti “palazzinari”, dei cementificatori che hanno sfruttato il boom economico del dopoguerra per costruire in modo eccessivo e qualitativamente discutibile, soprattutto nelle periferie delle grandi città.

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Non è un fenomeno da classificare in blocco come negativo, a mio parere: sono stati fatti danni, è vero, ma in molti casi si è data una risposta alla domanda di case di un paese che usciva stremato dalla guerra e voleva guardare con più ottimismo al futuro.

Quello che è rimasto, nei casi peggiori, sono interi quartieri completamente privi di servizi, chiamati “quartieri dormitorio”.

Il peggio però doveva ancora venire…

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Periferia ed ideologia = degrado ancora peggiore

Alla non-pianificazione urbanistica degli anni ’50 e ‘60 in certi casi ha fatto seguito una risposta in termini di iper-pianificazione, che si è rivelata una soluzione peggiore del problema di partenza.

Le periferie sono diventate vittime predestinate dell’ideologia, della sperimentazione urbanistica eccessiva, della forzatura verso modelli sociali che poi in realtà si sono rivelati fallimentari.

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E a questo punto sono nati i mostri…vediamo qualche esempio.

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Corviale, o più correttamente “Nuovo Corviale” (il “Serpentone” per i romani), è un edificio sito a Roma, nei pressi della via Portuense. Si tratta di una costruzione ciclopica, lunga circa 1 chilometro, in cui 8.500 persone vivono in condizioni di degrado e illegalità.

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Di proprietà dell’ATER del Comune di Roma (ex “Istituto Autonomo Case Popolari”), tra le più controverse opere architettoniche realizzate nell’Italia post-bellica, è stato progettato nel 1972 da un team di architetti coordinati da Mario Fiorentino.

I lavori, affidati ad un’unica impresa edile, si arrestarono per il fallimento della stessa impresa quando solo la parte residenziale era stata ultimata. Le prime abitazioni furono consegnate nell’ottobre 1982, ma già qualche mese dopo avvennero le prime occupazioni abusive da parte di circa settecento famiglie, che continuarono per tutti gli anni ’80 e ’90. Costituito da due stecche, una verticale ed una più piccola e bassa orizzontale, conta un totale di 1200 appartamenti.

Anni di occupazione e totale abbandono hanno ridotto l’edificio in condizioni di degrado e fatiscenza, anche se nel 2009 è diventato oggetto di un tentativo di riqualificazione che interessa pure il territorio circostante.

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Le innaturali concentrazioni metropolitane non colmano alcun vuoto, anzi lo accentuano. L’uomo che vive in gabbie di cemento, in affollatissime arnie, in asfittiche caserme è un uomo condannato alla solitudine (Eugenio Montale)

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(cliccare sulle immagini per ingrandirle)

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E che dire di Scampia, altro caso tristemente noto?

Quello che aveva progettato l’architetto Franz Di Salvo, considerato uno dei migliori interpreti della lezione di Le Corbusier e di Kenzo Tange (le grandi “unità di abitazione” piccole città autosufficienti in tema di servizi), era qualcosa di ben diverso da ciò che fu realizzato fra il 1962 e il 1975, al punto da indurlo a ritirare la sua firma dall’opera.

Le sue sette Vele prevedevano in tutto 6.500 vani, ma l’intero villaggio doveva essere dotato di scuole, teatri, cinema, centri sociali, spazi per il gioco e lo sport: nulla di tutto ciò fu realizzato né in contemporanea né dopo, e vi si rinunciò del tutto quando il terremoto del 23 novembre 1980 scatenò l’ennesima ondata di occupazioni abusive.

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Scampia oggi vanta il poco invidiabile record di quartiere col più elevato tasso di disoccupazione in Italia, superiore al 60%, oltre alla triste nomea di “paradiso della droga”.

L’amministrazione pubblica ha inanellato una serie di errori madornali nella gestione di questo quartiere nella periferia napoletana; qualche anno fa l’azienda sanitaria decise di aprire a poca distanza dalle Vele un punto di distribuzione di metadone per tossicodipendenti in fase di disintossicazione. La vicinanza della criminalità organizzata ha portato alla nascita quasi immediata di un mercato della droga che prima ha “risucchiato” coloro che stavano cercando di allontanarsene, poi ha richiamato nuovi adepti da tutta Italia. La cosa ha assunto dimensioni tali da essere oggi di fatto fuori controllo.

Le forze dell’ordine presidiano ma materialmente non possono intervenire all’interno degli edifici perché il pericolo é troppo elevato.

Di fatto é sorta una zona franca in cui l’illegalità prospera praticamente indisturbata.

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Da qualche anno la decisione drastica: abbattere tutto per ripartire da zero.

Eppure, quello che per Saviano è un “simbolo marcio del delirio architettonico”, per i docenti di storia dell’architettura, di restauro architettonico e per diversi sovrintendenti italiani è un “segno” da salvare, come lo sono stati anche altri segni del “male”, come alcune architetture fasciste, e come lo sono il Corviale, lo Zen e molti altri quartieri ad alto tasso di degrado. E intendono opporsi a un nuovo abbattimento delle Vele.

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La difesa (spesso ideologica) degli architetti

La difesa d’ufficio di alcune delle mostruosità architettoniche come quelle viste più sopra viene spesso assunta dall’ordine degli architetti o da singoli professionisti (a volte anche da sovrintendenti che coraggiosamente parlano di un patrimonio da salvaguardare).

Due o forse tre sono le motivazioni di queste prese di posizione: innanzitutto la difesa a spada tratta dell’idea, della visione urbanistica, cioè in pratica del diritto dell’architetto di sperimentare e innovare liberamente, facendo intendere sotto sotto che l’opinione di chi utilizza o abita gli esiti infausti di queste visioni non è di grande importanza, non sminuisce l’idea in sé e certamente non autorizza richieste di abbattimento.

In secondo luogo c’è sicuramente anche la difesa “in blocco” della categoria / corporazione, a prescindere dalla realizzazione specifica.

Come terzo elemento c’è forse anche il vezzo di andare controcorrente, nel senso che si è “avanti” solo se si dice il contrario di quello che il buon senso e la gente comune considera come scontato.

È interessante ciò che si dice sulla questione dell’abbattimento delle Vele di Scampia sul Blog “Fatto ad Arte” nel sito del Corriere della Sera. Riporto qui di seguito un brano tratto dall’articolo:

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LA GEOMETRIA CONTRO GLI ECOMOSTRI

La nostra civiltà tecnicamente avanzata ha il dovere morale di costruire un ambiente che agevola la vita umana, e, allo stesso tempo, di proibire costruzioni inumane erette a gloria di qualche ideologia, come furono le piramidi della casta religiosa legata al Faraone. Ebbene, anche presso di noi sono state elevate piramidi: non tombe reali, ma appartamenti per la classe operaia e disoccupata. Nessun borghese sognerà mai, se non in un incubo terrificante, di andare ad abitare in simili prigioni architettoniche, ma l’elite architettonica e politica ha trovato le cavie da chiudervi dentro.

Negli anni ’60 le critiche contro questo autentico crimine sociale erano poche; difatti le facoltà d’architettura e i critici con la pipa in bocca li difendevano. Ma oggi sappiamo, grazie ad ampi studi scientifici, che la vita, negli ecomostri, viene distrutta dalla stessa loro geometria. È dunque tempo di rivedere totalmente il concetto di cosa sia la geometria edilizia di un ambiente sano. Oggi sappiamo come costruire ambienti urbani e architettonici sani. Con sorpresa degli accademici irrigiditi nelle vecchie formule, elementi architettonici e urbanistici necessari per la salute fisica e mentale degli abitanti si ritrovano nei prototipi tradizionali e vernacolari. Eppure, nonostante le verifiche sperimentali, le élite questo messaggio non lo vogliono proprio sentire. E purtroppo c’è ancora diversa gente che pende dalle labbra di una cricca di politici e di presunti “esperti”, e ne segue ciecamente il diktat, condito di promesse di sviluppo e progresso attraverso la costruzione di spaventevoli e lucidi ecomostri.

Le Vele di Scampia non sono che un esempio fra molti di questa architettura inumana, totalitaria, tipica degli anni ’60 e ’70. Quando si scoprì che la thalidomidina induceva deformazioni nei feti umani, venne bandita dal mercato farmaceutico. Gli ecomostri invece continuano a ricevere l’appoggio fervente di un’intera classe di architetti alla moda, nonché di istituzioni che si vorrebbero responsabili della formazione di giovani professionisti. C’è più di un parallelo con quelle scuole di farmacologia dove s’insegnava che il Thalidomide era un buon medicamento contro la nausea provocata dalla gravidanza; ma quel crimine, con le conoscenze raggiunte, non lo si permette più. Perché allora tanto timore reverenziale, ancora, verso gli architetti famosi che promuovano gli ecomostri, e fanno finta che Corviale, Zen2, Vele e Tor Bella Monaca sono «bellissimi»?

Il dibattito architettonico sulla demolizione di ecomostri come le Vele di Scampia non ha a nulla che spartire con una raffinata conversazione tra punti di visto estetici diversi, ognuno con la sua dignità, perché prima di tutto qui sono in gioco le conseguenze nocive sulla vita degli abitanti. Se un critico promuove un parere che ignora la distruzione della società attraverso una geometria sbagliata, questo critico non è soltanto ignorante, ma provoca danni perché ascoltato dalla gente come esperto. Credo che sia venuto il tempo di ridestarsi dalla gran bugia promossa dall’autoreferenzialità architettonica, cominciando col rifiutare razionalmente la propaganda e la manipolazione mediatica che pretende di definire “opere d’arte” gli ecomostri. Opere d’arte tossiche

Prof.N.Salingaros

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Dove sono, quindi i segni della possibile rivincita sociale ed economica partendo proprio dalle periferie? Citerò solo due esempi di modelli positivi, riscontrabili qui da noi in Italia ma anche nel resto del mondo occidentale.

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Il riutilizzo

Collegato al tema del rilancio delle periferie c’è il filone dei progetti di recupero / riutilizzo. Riguarda aree ex-industriali, grandi edifici pubblici, strutture inutilizzate come caserme, depositi, ex-mercati.

La logica che sta dietro a questo fenomeno, visibilissimo in alcune città italiane come Milano, che hanno vissuto e stanno vivendo il passaggio da una industria manifatturiera di stampo tradizionale a una industria basata sulla conoscenza e sui servizi, è di tipo economico: specialmente in una fase di stagnazione del mercato immobiliare può essere vantaggioso investire cifre più basse valorizzando edifici che già esistono.

Peraltro questo offre agli architetti la possibilità di esplorare nuovi filoni progettuali, spesso con esiti di grande pregio.

Tipico esempio é il grande progetto di riutilizzo dell’area ex-Pirelli a Milano (Bicocca), fra Greco e Sesto San Giovanni, da cui è sorto un quartiere intero di edifici pregevoli dal punto di vista architettonico, inseriti all’interno di un piano urbanistico moderno e funzionale.

Forse manca ancora un po’ di vita, ma non dovrebbe tardare ad arrivare…

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Anche il mondo politico e le amministrazioni locali sembrano avere capito il potenziale di questa strategia di valorizzazione e il WWF ha pubblicato nel 2013 un interessante report, ancora molto attuale, collegato ad una campagna nazionale contro lo spreco di suolo.

Naturalmente la logica del riutilizzo vale anche su piccola scala, riguardando a volte singoli edifici di provincia che pure meritino di essere salvati; molto interessanti le iniziative di mappatura degli edifici e degli spazi “in sospeso”, in attesa di un migliore utilizzo, di una nuova funzione nel territorio.

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Aree industriali che diventano la base operativa di start-up high-tech

Il cambiamento dei modelli lavorativi guida spesso i progetti di riutilizzo e rilancio delle periferie. Basti pensare all’ormai diffuso fenomeno del “coworking”, dove nuove aziende in fase di avvio trovano all’interno di capannoni industriali riadattati una collocazione low-cost, concepita per favorire lo scambio di idee e dotata di tutti i servizi.

L’effetto congiunto della crisi economica, che rende spesso proibitivo l’affitto di spazi lavorativi secondo gli schemi (e i costi) tradizionali, e del lavoro condiviso e diffuso secondo i paradigmi della web-economy stanno portando ad una crescita esponenziale dell’offerta di questi spazi nelle grandi città.

Da semplici spazi di lavoro si sta cercando poi di trasformare questi contenitori in punti di incontro e di dialogo, di formazione, di fruizione di proposte culturali. Li si sta aprendo sempre di più al territorio circostante perché possano diventare un vero motore di crescita e di sviluppo.

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La street art, cioè l’arte che parte dalle periferie per conquistare la scena

Spesso non ce ne accorgiamo, ma è attorno anni. A volte così grande che ci sfugge.

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(Ravenna)

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(Roma)

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L’etica del “graffitaro”

Può sembrare assurdo parlare di etica per persone che imbrattano i muri delle città e creano situazioni di degrado, oltre che costi per per la collettività.

In realtà, se il fenomeno viene analizzato un po’ più in profondità si vede come quelli che sono nati come “graffiti” e poi hanno assunto (in parte) la qualifica di “street art”, non sempre possono essere liquidati come un fenomeno negativo da contrastare.

Distinguiamo infatti fra chi deturpa (monumenti, centri storici, addirittura treni!) per lasciare un proprio segno visibile di protesta, imbruttendo un angolo bello o comunque funzionale delle nostre città, rispetto a chi, volendo inviare un messaggio, di fatto abbellisce angoli brutti, cioè periferie degradate, spoglie, abbandonate.

Se i primi sono ovviamente da perseguire e reprimere, i secondi ormai sono stati accettati come una categoria di veri artisti, non più vandali.

Oggi sono le amministrazioni pubbliche stesse che chiamano street artist a realizzare opere in angoli che si vuole valorizzare.

L’amministrazione comunale della mia città, Forlì, ha chiamato di recente un artista noto a realizzare una street-opera proprio di fronte a un ecomostro (un parcheggio in cemento armato di cui la cittadinanza chiede da anni la demolizione). Si è trattato una operazione di abbellimento della città ed è stato unanimemente apprezzato.

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(Forlì, Luis Gomez)

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L’arte quindi può essere un veicolo di recupero di una dimensione estetica e quindi motore di  rivincita e di rilancio.

La street art, figlia delle periferie, ne è un esempio. É tutto fuorché un fenomeno superficiale e passeggero. Si dà obiettivi importanti e comunica significati sociali spesso profondi.

Se si vuole capirne meglio la filosofia consiglio di approfondire la conoscenza di uno degli artisti più famosi (e più misteriosi), cioè Banksy.

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In conclusione…

Mi ha colpito una frase di Renzo Piano, che evidenzia come tanti discorsi sulle città derivino dal chiodo fisso di volerle / poterle modellare secondo i nostri desideri, le nostre idee, la nostra visione economica e sociale.

In realtà:

 Una città non è disegnata, semplicemente si fa da sola.

Basta ascoltarla, perché la città è il riflesso di tante storie”

(Renzo Piano)

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